«Che esista una questione meridionale, nel significato economico e politico della parola, nessuno più mette in dubbio. C’è fra il nord e il sud della penisola una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gl’intimi legami che corrono tra il benessere e l’anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale». Sono parole che lo storico e politico Giustino Fortunato pronunciava alla fine del 1800. Ne sono passati di anni e, seppure in forme diverse ed in relazione ai vari periodi che si sono susseguiti, la questione si ripropone oggi sulla base della cosiddetta “autonomia differenziata” il cui obiettivo è quello di dare attuazione al terzo comma dell’art. 116 della Costituzione riguardante l’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario.
Art. 116, comma 3 Costituzione: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti la materie di cui al terzo comma dell’art. 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’art. 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”.
Il dibattito è più che mai vivo vista l’iniziativa intrapresa da tre regioni, Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna che chiedono, detto in maniera molto schematica e semplicistica, maggiore autonomia dallo Stato centrale. Il risultato dei referendum consultivi svoltisi in Veneto e Lombardia sembrano abbastanza chiari: in Veneto i SÌ hanno raggiunto il 98,1% con un’affluenza alle urne pari al 57,2% mentre in Lombardia (dove non era richiesto il quorum) i SÌ hanno raggiunto il 95,29% con un’affluenza però più bassa pari al 38,34%. A queste seguiranno probabilmente Piemonte e Liguria. Le tre regioni, pur con alcune differenze, propongono un corposo elenco di richieste su materie concorrenti, tra le quali la sanità, e persino alcune di legislazione esclusiva dello Stato, tra le quali l’istruzione, con l’obiettivo dichiarato di trasformare beni pubblici “nazionali” in beni pubblici “locali”. Per tutte chiedono di assumere funzioni finora esercitate dallo Stato. E’ necessario, per inquadrare con maggiore precisione l’intera questione, fare riferimento anche alla legge 42/2009 (cosiddetta legge Calderoli), legge di delega al Governo in materia di federalismo fiscale in attuazione dell’art. 119 della Costituzione.
Come affronteranno questo spinoso tema le regioni meridionali? È un interrogativo che bisogna porsi senza limitarsi al semplice dibattito, ma cercando, prima che sia troppo tardi, di prendere una posizione netta. Quello che sembra emergere è un atteggiamento di ferma contrarietà non preconcetta ma basata su elementi consistenti. Il primo è l’analisi del Presidente della SVIMEZ Adriano Giannola, secondo cui l’autonomia è da promuovere se è adeguatamente motivata e se aumenta l’efficacia e l’efficienza nell’uso delle risorse senza compromettere il requisito di solidarietà nazionale o, per dirla meglio, i diritti di “altri” cittadini. La legge 42/2009 Calderoli stabilisce infatti che i diritti siano garantiti su tutto il territorio nazionale previa determinazione di fabbisogni standard ed in regime di costi standard. Secondo la SVIMEZ quindi il trasferimento di competenze alle regioni non può pregiudicare il potere legislativo esclusivo dello Stato di decidere in materia. In definitiva, prima di devolvere funzioni e competenze è oggi più che mai cogente e prioritaria l’applicazione delle norme di legge in materia dei livelli essenziali.
Di aspetti fortemente controversi parla anche Elisabetta Catelani, Professore Ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università degli Studi di Pisa, riferendosi a “profili procedimentali di dubbia legittimità e possibile violazione dei diritti”; il limite, secondo la Catelani, è previsto nella stessa Costituzione, là dove si consente al Governo di sostituirsi alle regioni o agli altri enti locali al fine di mantenere “la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (art. 120 comma 2 della Costituzione). Il Presidente Toma fa riferimento allo spirito dei Padri costituenti i quali pensavano che la solidarietà nazionale dovesse contribuire a ridurre il gap tra regioni e, in special modo, tra le regioni del Nord e quelle del Sud; ove mai quindi il regionalismo differenziato fosse finalizzato a ridurre l’apporto e la solidarietà delle regioni a saldo finanziario particolarmente elevato in materia tale da provocare la riduzione della loro maggiore capacità contributiva al fondo perequativo, allora si dovrebbe parlare di “autonomismo”, ovvero di “federalismo”.
Di rischi che il Molise corre, con il percorso intrapreso da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, parla il Senatore Ulisse Di Giacomo che evidenzia un aspetto importante: il Molise è infatti la regione con il peggiore differenziale fiscale (la differenza cioè tra raccolta fiscale locale e trasferimenti statali) e la risposta non può quindi essere la richiesta di maggiore autonomia, bensì l’avvio di procedure che vadano oltre i confini regionali e che portino alla stipula di accordi con regioni più grandi e più forti sia economicamente che politicamente. La riflessione di Di Giacomo apre il campo a valutazioni più ampie e legano il tema dell’autonomia differenziata a quello delle macroregioni lanciato già nel 1992 dal noto studio della Fondazione Agnelli che prevedeva la riduzione delle regioni da 20 a 12 e poneva il Molise insieme a Marche ed Abruzzo. Di 12 regioni parla anche la proposta Morassut, ma in questo caso il Molise sarebbe “smembrato”, una parte con Marche e Lazio, una parte con Puglia e Basilicata.
Il tema macroregioni è da sempre uno dei cavalli di battaglia dell’ex Presidente della regione Campania Stefano Caldoro, strenuo sostenitore di una riorganizzazione territoriale dello Stato che possa ridurre se non eliminare l’enorme squilibrio che oggettivamente è palese tra regioni del Nord e regioni del Sud, tra aree particolarmente ricche produttive e aree molto più povere e arretrate. Affiancato dall’ex Ministro per le Riforme Gaetano Quagliariello, ha individuato nel referendum consultivo (così come è stato fatto per Veneto e Lombardia) lo strumento per raggiungere un traguardo ancora più ambizioso: un Sud costituito da un’unica macroregione. Parlando espressamente di crisi del regionalismo propone un “modello macro, flessibile, ampio un po’ come Germania e Stati Uniti che pur essendo Paesi federali hanno macro organi di gestione su determinate tematiche. Ad esempio trattano in maniera unitaria la sanità, il trasporto pubblico, la formazione, le politiche del lavoro, le politiche di sviluppo. Tutto questo per arrivare ad un Paese più giusto, andando a copiare modelli intrapresi da altri Stati”. A tale scopo partirà proprio in questo mese di gennaio la raccolta firme, senza alcun logo o simbolo di partito, che possa portare all’indizione del referendum.